procida film festival edizione 2013
Isola di Procida, 22 / 31 luglio 2013
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intervista |
di Azzurra SOTTOSANTI |
MAS ALLA’ DE LA SANTERìA
di Parsifal Reparato |
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28/30 |
Ciao Parsifal. Grazie per aver accettato quest’intervista. Innanzitutto complimenti per il tuo film e per il riconoscimento appena ricevuto. Iniziamo subito con le domande.
1. Come nasce l’idea di questo documentario? O meglio, da
dove proviene l’interesse per il tema della Santerìa cubana?
2. Hai riscontrato problemi o difficoltà nel corso delle riprese a Cuba? Più che parlare delle difficoltà delle riprese a Cuba ti parlerei delle difficoltà che ho avuto a portare avanti il progetto partendo dall’Italia.
Come ti dicevo,
il film è nato dalla mia tesi di laurea in antropologia. Portare avanti il
progetto ha significato aprire un campo di ricerca nuovo. Purtroppo a Roma
c’è l’infelice concezione che il laureando debba portare avanti le ricerche
del suo relatore, in pratica dovrebbe fare il “lavoro sporco” che il
professore ormai non vuole più fare. Proporre un nuovo campo di ricerca mi è
costato non poco e chi, in ambito universitario, avrebbe dovuto garantirmi
il suo supporto, a un certo punto si è tirato indietro, mentre ero già sul
campo, tentando successivamente persino di scoraggiare la produzione del
documentario. Lì a Cuba di riflesso ho avuto alcuni problemi con i permessi a girare nei luoghi pubblici: questo perché, sempre a causa della mancanza di sostegno da parte di chi avrebbe dovuto seguire le pratiche burocratiche all’interno della mia facoltà, non avevo ricevuto tutti i permessi necessari. Di questo il documentario ha risentito non poco, dato che non ho potuto girare gran parte della mia ricerca in esterni, in particolare nel sanatorio di Santiago de Las Vegas. Ma il valore scientifico della ricerca e del documentario è stato sicuramente riconosciuto in diverse iniziative. Dai festival di cinema etnografico - “Intimate Lens Festival” a Caserta; “Etno Film Fest” a Monselice (PD); “Festival Internacional de Cine Universitario Lanterna” in Messico. Ed infine ha partecipato a Giugno alla Conferenza Internazionale di Antropologia Medica a Terragona, in Spagna (“Encounters and Engagements: creating new agendas for medical anthropology”), un risultato positivo per un percorso come il mio, che mira, tra le altre cose, a scardinare le strutture chiuse di alcune realtà accademiche, ancora avviluppate intorno ad abiette dinamiche di potere.
3. Tu ti definisci un “anthropologist filmmaker”. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa figura? L’antropologia è una disciplina capace di valorizzare qualitativamente ogni tipo di ricerca, ma in Italia ancora non si è guadagnata il riconoscimento che merita, probabilmente perché rimane troppo legata alle sole dinamiche accademiche. Il metodo utilizzato dagli antropologi per portare avanti una ricerca, per analizzare e interpretare un determinato fenomeno oggi è indispensabile per comprendere ed interpretare la realtà che ci circonda. Il punto è che la maggioranza degli antropologi continua a focalizzarsi – ripeto - sull’ambiente accademico. Mentre il punto di forza dell’antropologia è proprio quello di riuscire a mettere in connessione diverse discipline, diverse realtà, con una visione olistica e riuscendo a parlare molteplici linguaggi. Il cinema è una delle passioni che coltivo da anni. Parallelamente ai miei studi ho sempre lavorato, in un modo o nell’altro, nell’ambiente cinematografico. Nella mia carriera di filmmaker/documentarista l’approccio antropologico ha sempre giocato un ruolo fondamentale. L’approccio con i protagonisti delle mie ricerche, il modo di portare avanti la ricerca, la capacità di trovare le domande giuste da fare e superare i momenti di stallo sono il frutto della mia formazione di antropologo.
4. Hai mai pensato di dedicarti ad cinema antropologico partecipativo, lasciandoti coinvolgere a pieno titolo nella comunità analizzata, integrandoti con essa, entrando in campo (e quando dico “campo” intendo proprio il campo visivo)? Dal mio punto di vista sarebbe una fortissima operazione testimoniale. Quando penso a “Mas allá de la Santería” non posso fare a meno di pensare a Jean Rouch ed Edgard Morin, sono dei punti di riferimento del mio percorso. Per me questo documentario fa parte del cinema “partecipativo”, seppure in maniera non convenzionale. “Mas allá de la Santería” racconta la storia di Gustavo attraverso la Santería, ma quello che realmente mi viene in mente quando penso al film è l’incontro tra me e Gustavo. La scelta di intervistare con la camera a mano fa emergere il ruolo della videocamera, usata come mezzo per rendere più intimo il dialogo, come se il dialogo avvenisse con la macchina, come se la macchina fosse diventata uno strumento che è riuscito a connettere due mondi intimamente, quei mondi di cui parla Merleau-Ponty. Il progetto è stato molto condiviso con Gustavo, l’idea di raccontarsi e di poterlo fare al di là delle mie domande, poter progettare anche insieme ciò che avrei filmato, ha fatto si che buona parte del documentario non fosse solo frutto delle idee dell’antropologo. Ne viene fuori un progetto che si configura intrinsecamente come una ricerca diretta da entrambi, per trovare un modo di raccontarsi e raccontare la propria esperienza di malattia, magari trovare una terapia esprimendo in particolare l’esperienza sensoriale del narrare. La narrazione non è stata una semplice storia raccontata, ma la costruzione della narrazione ha implicato la mia stessa partecipazione alla vicenda di Gustavo. Ho dovuto in qualche modo fare mia la storia di Gustavo, era l’unico modo per dare forma a quell’incontro. Unni Wikan, un’antropologa norvegese, riporta il termine balinese keneh, che è l’abilità di agganciare l’esperienza di altri e assumerla con coinvolgimento: lo si potrebbe tradurre con “sentire col cuore”. L’empatia è stata la chiave d’accesso al mondo di Gustavo, che ho pensato potesse essere espresso al meglio attraverso un film “condiviso”, dove la mia partecipazione doveva avere un ruolo chiave. Insomma il cinéma verité torna ad essere una guida per questo lavoro, si tratta della verità su un incontro. L’intero progetto è frutto del modo in cui il fillmmaker e il soggetto inquadrato negoziano la relazione, dove lo stesso atto di filmare diventa un processo di conoscenza in fieri, un’esperienza. Credo che entrare nel campo di ripresa durante l’incontro con Gustavo avrebbe comportato una forzatura nel nostro incontro, e a livello stilistico non avrebbe restituito quello che ha dato l’utilizzo della camera a mano. Con la camera a mano, il momento in cui inizio a girare è il momento in cui entro in una dimensione più intensa, non perché sono più attento, ma perché è come se la realtà mi venisse addosso; non è il filmmaker che invade la realtà, ma la realtà stessa che invade il filmmaker. Al momento della registrazione si entra in uno stato di percezione del tutto nuovo, come se si aguzzasse la vista: il cambiamento è inteso prima di tutto in termini quantitativi più che qualitativi, come se si vedesse di più. C’è un’amplificazione dello sguardo, che successivamente porta ad un miglioramento qualitativo, perché con la camera a mano si vede di più che a occhio nudo. La macchina non è intesa come una finestra sul mondo, ma come qualcosa che condiziona totalmente il nostro modo di vedere e percepire il mondo, che infatti durante la ripresa cessa di essere il mondo che era guardandolo ad occhio nudo. La macchina viene incorporata, altera e potenzia ogni forma di percezione del corpo di chi gira, dunque il corpo di chi guarda. Insomma è una concezione totalmente corporea della ripresa, anche quella fissa, che in realtà non è mai fissa, dato che la camera a mano segue i movimenti, le fluttuazioni del corpo umano, che anche quando è fisso è in movimento, un movimento cardiaco e respiratorio. La percezione del reale si potenzia, contemporaneamente si vede e si percepisce la realtà che si sta filmando (anche quello che rimane fuori dallo schermo) e inoltre nel monitor di controllo è possibile vedere il film che si sta facendo su quella realtà: è un vedere di più, dato dal vedere circoscritto nella camera. Inoltre c’è la componente audio: girare con le cuffie significa rapportarsi al proprio interlocutore stando totalmente immerso nella fonosfera che si sceglie di riprendere, che va a costituire un ulteriore spiazzamento percettivo della realtà da filmare. Questa idea di girare con la videocamera che respira, la volontà di far entrare nella visione delle cose la respirazione, che solitamente viene elusa, dà fondamento ed è come se introducesse una terza dimensione che sfonda l’immagine piatta dello schermo della videocamera ed entra profondamente nel film.
Questo credo che riesca
a rendere molto più partecipativa la mia presenza nel documentario,
piuttosto che entrare nel campo di ripresa. Nonché la possibilità di
esprimere le mie emozioni e le mie riflessioni attraverso le immagini di
Federica Ubertone e le musiche di Luca Iavarone, che riescono a restituire
un’implicazione maggiore a tutto il lavoro. Il mio percorso artistico passa attraverso la fotografia, è stata ed è tutt’ora una palestra per la mia sensibilità. Impegnarmi a trovare ciò che veramente voglio e vederlo stampato mi aiuta a trovare un cammino personale verso la definizione delle emozioni che voglio rappresentare, mi aiuta a stabilire un contatto profondamente complice con i miei soggetti, mi aiuta ad arrivare all’essenza e mi aiuta a riflettere sui miei progetti.
6.
Progetti in
cantiere? Il Vietnam rappresenta la Cuba dell’Asia per molti versi: entrambi i paesi sono il simbolo dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Non a caso i due paesi sono gemellati. Entrambi stanno vivendo dei cambiamenti radicali in questi anni. Durante i periodi di cambiamento bisogna fare i conti con grandi contraddizioni e sono proprio queste che mi stimolano a pormi nuove domande ed affrontare nuove sfide.
Grazie mille Parsifal. E in bocca al lupo per tutto.
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