HEAVEN
di Tom Tykwer
con Cate Blanchett
Giovanni Ribisi
Remo Girone
Stefania Rocca



Non sappiamo cosa avesse in mente Kieslowski quando assieme al suo fidato collaboratore Piesiewicz ha concepito la sceneggiatura di HEAVEN, poco prima di essere stroncato a soli 54 anni da un arresto cardiaco, ma se ci dobbiamo attenere alle lezioni di cinema che ci ha lasciato nella sua troppo breve ma mirabile carriera, vagamente immaginiamo qualcosa di molto diverso dalla pagliacciata messa in scena da Tom Tykwer. Le cronache parlano del progetto di una trilogia sul Paradiso, l'Inferno ed il Purgatorio, di cui HEAVEN doveva essere il capitolo primo, una opera cinematografica in tre storie interdigitate da una trama complessa nella quale, presumibilmente, si sarebbe dispiegato l'universo spitrituale e intellettuale del maestro polacco, affascinato dai miracoli del caso, rivolto a delineare dettagliate mappe interiori, spazi metafisici [e metafilmici] abbacinanti e introversi, percorsi esistenziali problematici, ostinati e sottili tentativi di comunicazione con l'assoluto. Di tutto questo non troviamo nulla nella interpretazione di Tykwer tanto che ogni rimando al nome di Kyeslovski reca un retrogusto iconoclasta, irritante e indigesto. I connotati tipici della sua arte sono totalmente estinti in questa storia ruffiana sospesa in modo inopportuno tra il thriller e il sentimentale, che tenta di ricalcare il talento kyeslovskiano di produrre poesia da storie d'amore nate da un incontri casuali in circostanze drammatiche, ma rimane strozzata nella sua presunzione: Tykwer non Kieslovski e se quest'ultimo era capace di sviluppare ipertrofici stati contemplativi da sceneggiature fatte di dialoghi minimali e persino un po' ingenui, i goffi rallentamenti di HEAVEN [eccessivi come lo erano le isteriche accelerazioni di Lola] e gli imbarazzanti vuoti sonori [fastidiosi come lo erano i martellamenti techno-punk di Lola], che avrebbero la pretesa di aprire alla meditazione non si sa di che cosa, rivelano soltanto la pochezza creativa di un autore che usa gli enigmi esistenziali come pretesto per impastare grossolani e poco convincenti esercizi di stile, come se il rango autoriale fosse accessibile semplicemente attraverso improvvisate fratture con la grammatica tradizionale o sospensioni narrative buttate qua e l senza criterio. "Non amo girare film scritti da altri" racconta Tykwer, e viene da dargli ragione soprattutto se "l'altro" porta cotanto nome, e quando aggiunge: "in questo caso la sceneggiatura diventata 'mia' fin dalla terza pagina" ci viene da sperare per le prossime volte che si scoraggi alla seconda. Quando infine sfacciatamente dice: "Mi affascinava la relazione tra caso e fede e come questi concetti influenzino la nostra vita, attraverso eventi apperentemente insignificanti", forse non sa di cosa sta parlando, dato che qui pi che gli eventi appare insiginificante il modo disonesto di impacchettare un film che non funziona neppure come prodotto d'intrattenimento; il potenziale spettacolare dell'impianto narrativo depresso dalla orchestrazione di attori di livello parrocchiale e personaggi involontariamente grotteschi a cominciare dal rigido allocco in divisa che fa da protagonista. La sfiga del bombarolo che per fare giustizia di uno spietato criminale fa saltare in aria due marmocchi, un padre e una lavandaia in odore di pensione, ha un che di comico; Il contatto da cui scocca il sentimento [- who are you? -, -I'm a CARABINIERE -] manda in esilio la tenerezza e sfiora memorabili vertici del trash; l'ambiente fatiscente e oscuro della soffitta dove i due, rigidi e impacciati, si autosegregano, sono un blasfemo tributo all'habitat del gobbo Quasimodo e alle estetiche dark de IL CORVO [quando il corpo di lei si staglia sul bagliore che irrompe dal finestrone circolare]; il sommario girovagare per i paesaggi toscani [con lo zainetto sulle spalle] avvolti in una luce densa e pesante sembra la fuga di due studentelli quasi tossici che hanno marinato la scuola del paesello e non sanno dove sbattere la testa; le siluettes dei corpi nudi su sfondo crepuscolare sembra un accoppiamento di primati in una radura equatoriale e la ciliegina sulla torta del finale, con l'elicottero sottratto a decine di sbirri imbambolati [la poca intelligenza dei carabinieri fedele almeno a certa tradizione popolare] che si solleva lentamente fino a perdersi nell'azzurro del cielo lascia interdetti, finch non trova senso come degna conclusione di un film totalmente inconcludente. E non convincono le artificiose panoramiche di un obiettivo che si muove a riprendere scene dove evidente non albergare il respiro di nessuno, n convince la ricercata estetica di scenari sublimi [le architetture torinesi e le campagne toscane] privi di intensit e afflato: l'ambientazione geografica una modifica che il produttore Minghella e il regista hanno apportato alla sceneggiatura originale, giustificando tale libert come "la scelta pi ovvia perch l'Italia" dice Tykwer " il paese ideale per girare un film spirituale"; tante grazie per il lusinghiero elogio al nostro paese, ma forse questa presunta "spiritualit" se la sono persa per la strada. La Blanchett, la cui grazia forse l'unica nota dignitosa di HEAVEN, ha speso parole a favore del soggetto al pari dell'improvvisato regista assoldato dalla Miramax: "l'ho letto e amato immediatamente" dice lei " intiso della poetica di Kieslowski. Certo, non un cinema che fornisce risposte facili; piuttosto analizza nozioni come amore e perdono in maniera molto complessa": beh, a giudicare da quello che abbiamo visto in sala, o abbiamo sbagliato film, o Kieslowski si star rivoltando nella tomba.

Voto: 12 /30

Mirco Galiè
15/10/2002