Non sappiamo cosa avesse in mente Kieslowski quando assieme al suo fidato
collaboratore Piesiewicz ha concepito la sceneggiatura di HEAVEN, poco
prima di essere stroncato a soli 54 anni da un arresto cardiaco, ma se
ci dobbiamo attenere alle lezioni di cinema che ci ha lasciato nella sua
troppo breve ma mirabile carriera, vagamente immaginiamo qualcosa di molto
diverso dalla pagliacciata messa in scena da Tom Tykwer. Le cronache parlano
del progetto di una trilogia sul Paradiso, l'Inferno ed il Purgatorio,
di cui HEAVEN doveva essere il capitolo primo, una opera cinematografica
in tre storie interdigitate da una trama complessa nella quale, presumibilmente,
si sarebbe dispiegato l'universo spitrituale e intellettuale del maestro
polacco, affascinato dai miracoli del caso, rivolto a delineare dettagliate
mappe interiori, spazi metafisici [e metafilmici] abbacinanti e introversi,
percorsi esistenziali problematici, ostinati e sottili tentativi di comunicazione
con l'assoluto. Di tutto questo non troviamo nulla nella interpretazione
di Tykwer tanto che ogni rimando al nome di Kyeslovski reca un retrogusto
iconoclasta, irritante e indigesto. I connotati tipici della sua arte
sono totalmente estinti in questa storia ruffiana sospesa in modo inopportuno
tra il thriller e il sentimentale, che tenta di ricalcare il talento kyeslovskiano
di produrre poesia da storie d'amore nate da un incontri casuali in circostanze
drammatiche, ma rimane strozzata nella sua presunzione: Tykwer non Kieslovski
e se quest'ultimo era capace di sviluppare ipertrofici stati contemplativi
da sceneggiature fatte di dialoghi minimali e persino un po' ingenui,
i goffi rallentamenti di HEAVEN [eccessivi come lo erano le isteriche
accelerazioni di Lola] e gli imbarazzanti vuoti sonori [fastidiosi come
lo erano i martellamenti techno-punk di Lola], che avrebbero la pretesa
di aprire alla meditazione non si sa di che cosa, rivelano soltanto la
pochezza creativa di un autore che usa gli enigmi esistenziali come pretesto
per impastare grossolani e poco convincenti esercizi di stile, come se
il rango autoriale fosse accessibile semplicemente attraverso improvvisate
fratture con la grammatica tradizionale o sospensioni narrative buttate
qua e l senza criterio. "Non amo girare film scritti da altri" racconta
Tykwer, e viene da dargli ragione soprattutto se "l'altro" porta cotanto
nome, e quando aggiunge: "in questo caso la sceneggiatura diventata
'mia' fin dalla terza pagina" ci viene da sperare per le prossime volte
che si scoraggi alla seconda. Quando infine sfacciatamente dice: "Mi affascinava
la relazione tra caso e fede e come questi concetti influenzino la nostra
vita, attraverso eventi apperentemente insignificanti", forse non sa di
cosa sta parlando, dato che qui pi che gli eventi appare insiginificante
il modo disonesto di impacchettare un film che non funziona neppure come
prodotto d'intrattenimento; il potenziale spettacolare dell'impianto narrativo
depresso dalla orchestrazione di attori di livello parrocchiale e personaggi
involontariamente grotteschi a cominciare dal rigido allocco in divisa
che fa da protagonista. La sfiga del bombarolo che per fare giustizia
di uno spietato criminale fa saltare in aria due marmocchi, un padre e
una lavandaia in odore di pensione, ha un che di comico; Il contatto da
cui scocca il sentimento [- who are you? -, -I'm a CARABINIERE -] manda
in esilio la tenerezza e sfiora memorabili vertici del trash; l'ambiente
fatiscente e oscuro della soffitta dove i due, rigidi e impacciati, si
autosegregano, sono un blasfemo tributo all'habitat del gobbo Quasimodo
e alle estetiche dark de IL CORVO [quando il corpo di lei si staglia sul
bagliore che irrompe dal finestrone circolare]; il sommario girovagare
per i paesaggi toscani [con lo zainetto sulle spalle] avvolti in una luce
densa e pesante sembra la fuga di due studentelli quasi tossici che hanno
marinato la scuola del paesello e non sanno dove sbattere la testa; le
siluettes dei corpi nudi su sfondo crepuscolare sembra un accoppiamento
di primati in una radura equatoriale e la ciliegina sulla torta del finale,
con l'elicottero sottratto a decine di sbirri imbambolati [la poca intelligenza
dei carabinieri fedele almeno a certa tradizione popolare] che si solleva
lentamente fino a perdersi nell'azzurro del cielo lascia interdetti, finch
non trova senso come degna conclusione di un film totalmente inconcludente.
E non convincono le artificiose panoramiche di un obiettivo che si muove
a riprendere scene dove evidente non albergare il respiro di nessuno,
n convince la ricercata estetica di scenari sublimi [le architetture
torinesi e le campagne toscane] privi di intensit e afflato: l'ambientazione
geografica una modifica che il produttore Minghella e il regista hanno
apportato alla sceneggiatura originale, giustificando tale libert come
"la scelta pi ovvia perch l'Italia" dice Tykwer " il paese ideale per
girare un film spirituale"; tante grazie per il lusinghiero elogio al
nostro paese, ma forse questa presunta "spiritualit" se la sono persa
per la strada. La Blanchett, la cui grazia forse l'unica nota dignitosa
di HEAVEN, ha speso parole a favore del soggetto al pari dell'improvvisato
regista assoldato dalla Miramax: "l'ho letto e amato immediatamente" dice
lei " intiso della poetica di Kieslowski. Certo, non un cinema che
fornisce risposte facili; piuttosto analizza nozioni come amore e perdono
in maniera molto complessa": beh, a giudicare da quello che abbiamo visto
in sala, o abbiamo sbagliato film, o Kieslowski si star rivoltando nella
tomba.
Voto: 12 /30
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