MUSEO DEL
CINEMA DI TORINO RETROSPETTIVA TAKASHI MIIKE |
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Abbiamo incontrato Miike Takashi in occasione della retrospettiva a lui dedicata dal Museo del Cinema di Torino, che ha visto il regista giapponese presentare circa un terzo della propria sterminata produzione. Dai lavori più recenti, come IZO o THE GREAT YOKAI WAR,visti a Venezia, a quelli che l’hanno consacrato regista anarchico e abrasivo pronto a ribaltare le forme e i modi del cinema per assoggettarle alle proprie urgenze. Prima della presentazione, in una sala gremitissima, di DEAD OR ALIVE, uno dei suoi lavori più importanti, Miike Takashi ha accettato di raccontare a Kinematrix qualcosa del proprio cinema, della propria violenza e delle proprie visioni.
Iniziamo parlando di IMPRINT, l’episodio che ha girato per la serie
americana Masters Of Horror e che è stato censurato in America.
Durante la realizzazione del film ha mai avuto la sensazione che sarebbe
stato difficile farlo arrivare sul mercato degli Stati Uniti? T.M.-
Ho girato il film interamente in Giappone, poi, finita la post produzione,
l’ho mandato al produttore americano di Masters Of Horror. Per un po’
di tempo non ho avuto risposte e ho cominciato a sospettare che ci fosse
qualcosa che non stava andando per il verso giusto. La produzione pensava
che ci fossero alcune scene che andavano rimontate; io ho risposto che se si
trattava di un’imposizione l’avrei fatto, ma che, potendo scegliere, avrei
preferito non toccare il film. Alla fine IMPRINT non è stato trasmesso in
TV, ma sarà pubblicato solo in DVD. Il film è una cosa mia, ma è l’emittente
televisiva ad avere il potere di trasmetterlo; se loro hanno deciso di non
trasmetterlo, non c’è problema. T.M.-
Non credo che sarebbe mai stato trasmesso in Giappone. In America il sistema
della tv via cavo è molto diffuso e permette anche a prodotti più violenti
di ottenere un passaggio televisivo, mentre in Giappone la situazione è un
po’ diversa. C’è una forte auto censura da parte delle emittenti televisive
non solo nei confronti della violenza, ma anche del linguaggio, che deve
sempre essere il più possibile politicamente corretto. T.M.-
I limiti ci sono sempre, nella televisione e nel cinema. Io cerco sempre di
svincolarmi da questi limiti senza forzarli, piuttosto eludendoli. Ci sono
delle regole a cui devo sottostare e ciò che mi diverte è trovare delle
anomalie, delle variazioni che mi permettano di giocare con le regole. T.M.-
Per me è fondamentale il momento in cui vedo un film. Da bambino vedevo
molti film per bambini, poi, arrivato a quell’età delicata e ambigua in cui
si pensa di essere pronti a vedere un film “da grandi”, ho deciso di
guardare THE TEXAS CHAINSAW MASSACRE. E’ stato uno shock fortissimo che mi
ha segnato per molto tempo. Col tempo, continuando a vedere film horror, mi
sono abituato a quel genere di emozione, ma in quel momento quel film ha
scatenato in me una reazione che ha contribuito in modo fondamentale a
formare il mio approccio al cinema. La mia generazione è diventata adulta
con quei film.
T.M.-
La ragione per cui riesco a fare tanti film è proprio che mi piace
moltissimo. Ci sono molti registi che lavorano per anni su un film, sulle
inquadrature, sul montaggio. Nello stesso tempo io faccio quindici film. Dal
mio punto di vista fare un film ogni tre anni è uno spreco di tempo. Se ci
metti tre o quattro anni a fare un film e poi quel film si rivela essere un
flop, il fallimento è enorme sia sul piano personale che su quello
commerciale. Takeshi Kitano, ad esempio, porta su di sé aspettative enormi
che immagino costituiscano uno stress mostruoso per lui; per lui un
fallimento sarebbe rovinoso. T.M.-
Non mi interessa lo status di autore, né mi interessa corrispondere alle
aspettative dei critici. Mi considero un artigiano, perché il cinema è il
mio lavoro, la mia professione. Mi piacerebbe essere percepito così anche
dal pubblico, ma ognuno si fa un’immagine di me diversa. In ogni caso
preferisco essere un artigiano, avere la possibilità di fallire senza
drammi, senza dover rendere conto di un’ “autorialità”. T.M.-
La violenza ha molti significati. Tutti mi chiedono del mio uso della
violenza, ma io non ho una risposta precisa, perché la mia elaborazione
della violenza non è mai meditata. La violenza è ovunque, così come il
brutto è ovunque. Se squilla il telefono e rispondi, speri sempre che sia
una bella notizia, ma potrebbe essere la tua ragazza che ti dice che suo
padre è morto. Eppure continuiamo a rispondere al telefono, perché la morte
e la violenza sono parte della vita di tutti. L’utilizzo simbolico o
estetico della violenza non mi pone alcuna “questione morale”. Credo che una
violenza più subdola si trovi nel cinema americano, in cui i personaggi
secondari sono sempre “spendibili”, vivono in funzione del protagonista. E’
una forma di violenza estremamente mortificante. T.M.-
IZO nasce dall’idea di uno sceneggiatore costretto a scrivere per anni
sceneggiature “tradizionali”, costruite su stereotipi tragici o comici.
Quando questo sceneggiatore mi confessò di aver scritto una sceneggiatura
“ribelle”, che sovvertiva tutte le regole del cinema, ho voluto leggerla. Ho
pensato che il film si potesse fare, così ho cominciato a girare. Durante le
riprese ho cambiato quello che volevo, aggiungendo anarchia ad anarchia,
arrivando ad avere un prodotto del tutto inclassificabile. Personalmente amo
molto IZO, perché ha rappresentato una grande valvola di sfogo. Per qualche
anno farò film “normali”, poi, forse, ci sarà un altro IZO. T.M.- Mi piace lavorare con i bambini, perché un attore adulto ha un bagaglio accademico, mentre un bambino è una lavagna vuota. Puoi guidarlo, plasmarlo, puoi lavorare sulla loro imprevedibilità. Il rapporto con un bambino non è mai filtrato dalla formalità. Mi piace pensare di riuscire a catturare in un mio film un momento che non si ripeterà più, un’età che andrà inevitabilmente persa. Mi piace fare film per i bambini, ma quello che voglio continuare a fare è fare film sui bambini.
Torino, 14:05:2006 |