“La
cantatrice calva: si pettina sempre allo stesso modo”
Dall’8 al 20 gennaio, la Compagnia Ginepro
Nannelli, gestore della Casa delle Culture nel cuore di Trastevere già dal
2000, ha messo in scena un’acuta e sorprendente versione de La Cantatrice
Calva di Eugene Ionesco, la famosa pièce che costituisce l’atto di nascita
del Teatro dell’Assurdo.
In questo salotto alto borghese, in cui i protagonisti non sono adagiati su
comode poltrone, ma sono scomodamente seduti su piccoli sgabelli, prende
inizio una ritmata “danza parodistica”: nonsense e frasi fatte costituiscono
la materia prima dei dialoghi tra la Signora e il Signor Smith (Patrizia
D’Orsi e Marco Carlaccini) e la Signora e il Signor Martin (Sara Poledrelli
e Claudio Capecelatro). Una sorta di gioco infernale, con una serie di
reiterazioni e ripetizioni, che fanno procedere in climax e che rendono la
sensazione che l’opera stessa si concluda con una sospensione e non con un
finale vero e proprio. D’altronde, incombe prepotentemente sulla scena un
grande pendolo che, andando talvolta avanti e talvolta indietro, scandisce
un tempo ciclico, un tempo non-consumato.
Dopotutto, i personaggi non presentano tratti caratteriali compiuti, non
hanno storia e memoria, ma sembrano piuttosto ridotti a marionette dalle
buone maniere: se volessimo citare Dario Fo, potremmo dire “Siam felici,
siam contenti del cervello che teniamo, abbiam l’elica che ci obbliga ad
andar sempre col vento” (Canto degli italioti) . Insomma, diremmo che sono
fantocci, zimbelli, a cui questi attori donano pose stilizzate ed
espressioni attonite, riuscendo, attraverso la loro performance, ad
aggiungere ironia e modernità al testo.
Ancora, colpiscono fortemente, nell’adattamento della Compagnia Ginepro
Nannelli, le scelte scenografiche, con l’arredo quasi completamente assente,
ridotto a pochi sgabelli e al pendolo. A farla da padrone è, invece, il
gioco luci che, attentamente, squadra e inquadra i protagonisti. I costumi
sono ancor più ironici: parrucche colorate, gonne trapezoidali, broccati
barocchi (quasi a voler alludere all’epoca dello sfarzo e del vuoto per
eccellenza). 28/30 |